mercoledì 13 aprile 2011

La Fabbrica dell'Obbedienza

Italiani, per favore, non urlate così. Ma è mai possibile che chi entra in un ristorante debba uscirne un'ora dopo con la testa sul punto di scoppiare? Tutti che raccontano i propri guai: prima della pastasciutta, tra la pastasciutta e il rollè di vitello, in attesa della mousse, prima del caffè, dopo il caffè, un impasto greve e quasi gelatinoso di vapori e parole pronunciate sempre a voce altissima, un po' fissando il proprio commensale, un po' la signora del tavolo accanto, in modo da essere sicuri che abbia sentito anche lei, che sia d'accordo con noi, anzi piena d'ammirazione per noi. Si direbbe che l'italiano sia spinto dal bisogno non di comunicare con il proprio simile, ma di trasmettere messaggi all'universo mondo: che cosa è mai la vita senza una grande platea?
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In conclusione, sono circa cinque secoli che la Chiesa lavora senza sosta sulla coscienza degli italiani, ne modella il carattere, lo condiziona, l'orienta, lo domina. Cinque secoli! Uno e mezzo dei quali - anno più anno meno - spesi a seminare terrore, ad accendere roghi, a operare ricatti, a umiliare senza pietà.

Ancora oggi, assicurano gli storici, non possediamo un bilancio affidabile degli orrori compiuti dalla Controriforma attraverso i suoi bracci armati. Ancora oggi non possediamo informazioni adeguate sulla sua capacità di penetrazione tra le pieghe più nascoste della società, e non soltanto di quella cittadina ma anche di quella rurale. Di sicuro, denuncia e delazione erano dappertutto dietro la porta: bastava una bestemmia, una giaculatoria, una qualunque pratica superstiziosa a far scattare l'obbligo di presentarsi davanti al vicario dell'Inquisizione. In che misura ha inciso tutto questo sul nostro comportamento, sul nostro modo di pensare oltre che di agire?

Ma ciò che mi preme sottolineare qui adesso è come la percezione della Chiesa da parte del cittadino-suddito non muti in maniera sostanziale allorché l'autorità ecclesiastica passa dalle tecniche repressive più feroci e perfino sanguinarie a quelle incruente ancorché pesantemente censorie dei secoli successivi al Seicento. Soggezione e subordinazione non cedono affatto il passo a un rapporto più liquido e dialettico.

Bisognerà aspettare la fine del secondo conflitto mondiale perché gli italiani comincino finalmente a ridere liberamente di se stessi, a vedersi come sono, ad auto fustigarsi, a chiedersi sbigottiti come mai, per colpa di chi, abbiano fatto una fine così miserevole. Il "miracolo" lo fa il cinema, in un momento in cui i cosiddetti poteri forti sono in ginocchio. La censura è in ginocchio. La Chiesa è in ginocchio. Lo Stato è in ginocchio. E le coscienze più vigili e avvertite possono finalmente interrogare in maniera diretta la realtà e se stesse.
La letteratura cinematografica dell'immediato dopoguerra si trasforma così in un'unica sferzante satira che ha per bersaglio fisso l'italiano medio, quel borghese piccolo piccolo privo di spina dorsale, un po' mammone, un po' cinico, un po' imbroglione, nonché arrogante, servile, fanfarone, perfido, querulo, spaccone, bugiardo, egoista. E soprattutto senza scrupoli.

Quale paese al mondo è stato altrettanto denudato e psicanalizzato?, ha subìto processi così capillari e martellanti? Tra la fine degli anni quaranta e la fine degli anni settanta ne abbiamo presi di schiaffi in faccia (chi non ricorda il Fellini dei Vitelloni o il Monicelli di Amici miei? Chi non ricorda certe interpretazioni di Totò, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi e via elencando? Chi non ricorda le storie disperate raccontate in La terra trema e Ladri di biciclette?).

Penso che tanta pungente denuncia non sia scivolata senza conseguenze sulla nostra pelle; ha sicuramente aiutato molti di noi ad aprire gli occhi, a correggerci, almeno in parte. In ogni caso è un fatto che a questi comici, registi, sceneggiatori arrise un consenso tanto straordinario quanto sorprendente, o perlomeno rivelatore: della latente consapevolezza da parte degli italiani delle proprie anomalie e storture.

Ma la consapevolezza non è tutto e il tempo non ha lavorato a nostro favore: ha lavorato contro. Tramontata rapidamente la speranza della virtù, il passato ha ripreso il sopravvento e quel borghese piccolo piccolo, messo alla gogna negli anni del dolore e della consapevolezza, è tornato prepotentemente alla ribalta.


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